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IL SENSO DELLA STORIA. Convegno AICC – marzo 2019

IL SENSO DELLA STORIA.

Convegno AICC – marzo 2019

 

Stefano Casarino

 

Si è appena conclusa la Sessione Primaverile del Convegno della Delegazione di Cuneo dell’ A.I.C.C., articolata nei due pomeriggi di  martedì 19 e giovedì 21 marzo presso l’Aula Bruno del Liceo “Vasco Beccaria Govone” di Mondovì (CN): tema di quest’anno, Il senso della storia, argomento che ha certamente incontrato l’interesse del numeroso pubblico – di docenti (per i quali ha anche valore di corso di aggiornamento), di studenti e di appassionati – che ha riempito la sala. Organizzato col Patrocinio del Comune di Mondovì e con la collaborazione di molte Associazioni Culturali (l’ANPI di Mondovì e l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo; Gli Spigolatori di Mondovì e il Centro Studi Monregalesi), del DIRAAS dell’Università di Cuneo e dei Licei di Cuneo e di Saluzzo, il Convegno intende offrire un’articolata riflessione pluridisciplinare sul valore della storia proprio ora che essa sembra avere un’importanza minore nei programmi scolastici (al biennio liceale da tempo ormai impera una materia dal brutto nome di Geostoria, bizzarra fusione di “geografia” e “storia” per tre misere ore settimanali; con la nuova Riforma dell’Esame di Stato è scomparso il tema storico; le prove INVALSI prescindono totalmente dalla storia) e nel dibattito culturale.

Il primo pomeriggio il caloroso saluto del Sindaco di Mondovi, avv. Paolo Adriano, ha rimarcato la necessità del “fare storia”, di una riflessione criticamente  accorta sul passato come requisito ineliminabile per la comprensione del presente; gli ha fatto eco il breve ed appassionato intervento del Preside Bruno Gabetti, che ancora una volta ha dimostrato fine sensibilità culturale e autentica curiositas.

È toccato a chi scrive introdurre i lavori: partendo dalla lirica montaliana La storia – ironica e forte reazione agli storicismi imperanti nell’età in cui fu scritta, l’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso  – si è stigmatizzata quell’icastica abiura alla storia (La storia non è magistra di niente che ci riguardi), considerandola quanto mai pericolosa oggi, in questo tempo di risorgenti nazionalismi, o “sovranismi” che dir si voglia, e si è, invece, proposto di tornare alla distinzione aristotelica tra “storia” e “poesia” e di riflettere su quanto la cultura classica, da Erodoto in poi, non abbia mai fatto a meno della storia. Fu proprio lo storiografo di Alicarnasso a riflettere sul “senso” del trattare di storia, individuando plurime motivazioni: perché sulle opere dell’uomo non scenda l’oblio (la conservazione della memoria: cosa pensiamo di fronte ad un individuo che abbia perso la memoria? Certamente che sia affetto da qualche seria patologia; credo che dovremmo pensare lo stesso anche per i popoli che non ricordano il loro passato); per conferire gloria alle imprese straordinarie di tutti coloro che hanno contribuito a fare la storia, valutando in modo equanime vincitori e vinti; per indagare sulle cause che hanno determinato i fatti.

Uno storico serio va sempre alla ricerca di ciò, applica un metodo eziologico.

Chi lo applicò in maniera magistrale fu Tucidide, forse il vero padre della “visione olistica”, un autore che ci può essere di grande aiuto proprio nell’età che viviamo, che è stata definita “l’epoca della complessità”: egli ci dimostra che i fatti storici non si spiegano mai in base ad una e ad una sola causa; va dunque evitata ogni tentazione riduzionistica e ogni ricorso a formule e a slogan.

Un’altra lezione importante è quella di Polibio, per il quale la conoscenza della storia permette di correggere gli errori commessi, ci educa e ci responsabilizza e ci rende più capaci e più preparati ad affrontare il futuro.

La centralità della storia si perse nel Medioevo, quando si considerò tutto sub specie aeternitatis: ritornò, in perfetta simbiosi col recupero della conoscenza del greco e del latino  (come ha perfettamente spiegato Eugenio Garin), con l’Umanesimo e col Rinascimento; subì altre eclissi; ritornò in auge col Romanticismo, ecc… Oggi, probabilmente, viviamo proprio in uno di questi periodi di eclissi: siamo inclini a contemporaneizzare tutto, stiamo sempre più perdendo il senso della diacronia.

Ma è una perdita molto pericolosa, perché, come ebbe modo di scrivere Zvetan Todorov, solo il gusto amaro della storia può indurci a trasformarci.

Perdere il senso della storia – ha osservato con sorprendente coerenza rispetto a quanto sin qui affermato il secondo relatore, Prof. Gigi Garelli, Direttore dell’ Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo – equivale a non credere più nel valore, intellettuale ed etico, dello studio in sé. Lo dimostra leggendo una testimonianza che non può  lasciare indifferenti: la lettera che la monregalese Paola Garelli, diventata “Mirka” come partigiana, scrive alla figlia ancora bambina prima di essere fucilata dai fascisti nel fossato della fortezza Priamar di Savona il 1 novembre 1944:

 

Mimma cara, la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo. Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandoti. La tua infelice mamma.

 

Due volte questa madre nel suo ultimo addio raccomanda alla figlia di “studiare”: pensiamo oggi ancora che quell’appello sia importante?

Se sì, come, allora, studiare la storia? Garelli invita a riflettere sul fatto che in italiano un unico termine designa la “storia” come disciplina oggetto di studio e la “chiacchiera”, il “racconto inventato” (Che storia è questa?; Non raccontarmi delle storie!), a differenza di altre lingue, in questo più precise (ad esempio history e story in inglese) e cita la longue durée di Fernand Braudel e l’importanza dei cleavages studiati da Stein Rokkan.

Uno straordinario stumento per studiare e capire la storia è anche la cinematografia: vengono mostrate alcune sequenze di grande impatto del film Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino.

Dopo un’intensa ora di lezione Garelli formula le seguenti conclusioni: la storia non serve a dare risposte ma a evidenziare problemi; studiarla significa mettersi in prospettiva, destrutturare pregiudizi e apparenze; imparare a contestualizzare e a relativizzare. Ci consente una conoscenza imperfetta: come, in fondo, è ogni forma di conoscenza umana.

Ultimo intervento della prima giornata, quello di Marco Travaglini, giornalista e scrittore, esperto delle guerre nella ex-Jugoslavia, che ha illustrato i progetti organizzati e i concorsi banditi della Regione Piemonte proprio sulla storia – vinti molte volte dagli studenti del Liceo Vasco Beccaria Govone di Mondovì –, che hanno come premio la visita a luoghi imprescindibili per una migliore comprensione della storia: mi limito a citare quella dello scorso anno , alla quale ho anch’io partecipato, a Trieste, alla Risiera di San Sabba e alla Foiba di Basovizza; ma vanno ricordate certamente anche quelle ai lager, a Berlino, ecc…

Travaglini ha giustamente insistito sull’importanza dell’ “autopsia”, del vedere coi propri occhi alcuni posti per riflettere sulla sovrapposizione tra spazio geografico e tempo storico: ad esempio, il lager di Buchenwald dista solo otto chilometri da Weimar, dalla casa di Goethe e le SS lasciarono in piedi lalbero di Goethe, sotto il quale il grande poeta sedeva a scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald. Il meglio e il peggio della storia di un popolo racchiusi in uno stesso posto: quanto è prezioso il potere evocativo dei luoghi! La storia va fatta, come afferma Paolo Rumiz, anche con gli occhi, i piedi e le gambe: ci deve essere da parte dello storico una sorta di “fisicità nel narrare”.

Il secondo pomeriggio l’accuratissima lezione della Prof.ssa Lia Raffaella Cresci, dell’ Università di Genova, ha permesso al folto pubblico di esplorare un panorama storico-geografico solitamente trascurato: quello dell’Impero Romano d’Oriente. Metodologicamente si è affermata con vigore l’ingenua vacuità di una visione univocamente progressista del divenire storico: la storia non va sempre e comunque in avanti, sembra piuttosto procedere a zig zag. Anzi, certi momenti, a seconda del punto di vista assunto, possono essere benissimo essere considerati sia di progresso che di regresso.

È il caso, ad esempio, dell’età di Giustiniano, l’imperatore bizantino a noi certamente più noto: si raggiunse allora il massimo dell’estensione territoriale; ci fu una formidabile fioritura artistica, si realizzò l’imponente Corpus iuris civilis (in soli tre anni, grazie ad una commissione costituita da sei membri, presieduta da Triboniano). Ma è anche il periodo in cui colpevolmente si sguarniscono il fronte sassanide e quello sul Danubio, determinando di lì a poco gravissime conseguenze. E in Occidente la guerra greco-gotica (535-553), narrata da Procopio di Cesarea, fu un impressionante massacro e determinò lo sfacelo della penisola italiana.

In modo antitetico, l’età dell’iconoclastia, apparentemente di regresso con l’Impero ridotto ai minimi termini, vede però la nascita di un esercito stanziale di cittaadini e non di mercenari, il ricambio della classe dirigente, la fine del latifondismo e nessun tipo di preclusione etnica o culturale (l’imperatore Leone IV il Cazaro aveva tratti mongolici).

Si passano in rassegna altri momenti di fondamentale importanza, come la cristianizzazione degli Slavi e l’opera di Cirillo e Metodio – da cui nascerà l’alfabeto cirillico –, definiti da papa Giovanni Paolo II nell’enciclica  Slavorum Apostoli “gli anelli di congiunzione, o come un ponte spirituale tra la tradizione occidentale e quella orientale”; o come la conquista di Costantinopoli nel 1204 da parte dei Veneziani e dei cavalieri della IV Crociata, che determinerà poi la riconquista della capitale da parte di Michele VIII Paleologo, alleato dei Genovesi e fondatore di quella dinastia che regnerà sino alla definitiva caduta dell’Impero nel 1453 per opera dei Turchi di Maometto II.

Lunghissima e molto complessa, dunque,  la storia di questo Impero, che sembra procedere “ a fisarmonica”, con momenti successivi di espansione e di contrazione, e con una corrispondenza a volte inversa tra successi militari e regressi culturali.

Con un impressionante balzo cronologico, il Prof. Stefano Sicardi, dell’Università di Torino, ci ha ravvicinati alla nostra storia e ha fornito un’appassionata e articolata ricostruzione del processo costituzionale tra storia, politica e diritto nel periodo tra l’8 settembre 1943 e il 27 dicembre 1947, data della promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana: solo quattro anni di straordinaria densità, in cui avvenne una forse per certi aspetti irripetibile evoluzione politica e giuridica, certamente da noi meno condizionata dagli Alleati che altrove (Germania) e dal successo più convincente e duraturo che in altri Paesi (si pensi alla Francia, la cui Costituzione nata nel 1946 ebbe vita brevissima, solo sino al 1958).

In quei quattro anni si realizzò una straordinaria unità di intenti tra tutte le forze politiche, determinata anch’essa da una pluralità di cause, tutte esaminate dal relatore: il comune legame resistenziale; l’esigenza della ricostruzione di un Paese distrutto, all’orizzonte del quale si  profilava anche la possibilità di una guerra civile; un grande senso di responsabilità e pure, fortunatamente, un po’ di lungimiranza.

Molto accurata la ricostruzione delle procedure e della tempistica di tale processo: dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 alla prima riunione dell’Assemblea Costituente del 25 giugno dello stesso anno alla costituzione nel 20 luglio della Commissione presieduta da Meuccio Ruini, ulteriormente strutturata in tre sottocommissioni, che lavorarono la prima ai diritti e doveri dei cittadini, la seconda all’ordinamento della repubblica e la terza ancora e più specificamente ai diritti e doveri economici e sociali.

Il prodotto finale fu votato a scrutinio segreto e ottenne un’amplissima maggioranza: sarebbe auspicabile, a parer mio, che si tenesse ben presente ciò, prima di procedere, come recentemente e un po’ avventatamente è stato fatto, a qualsivoglia tipo di massiccia revisione della nostra Costituzione.

Così come il primo pomeriggio l’intervento di Marco Travaglini era stato focalizzato sull’importanza del “vedere”, quello conclusivo di Daniele La Corte, anche lui giornalista e scrittore, autore del recente Resistenza svelata (Fusta Ed. Saluzzo) – e mi fa piacere ricordare che in anteprima nazionale tale romanzo storico è stata presentato, a cura del sottoscritto, qui a Mondovì il 27 ottobre 2018 – si concentra sull’importanza dell’ “ascoltare”.

Partendo dall’importanza della “narrazione” e citando Herbert Marshall McLuhan  (Se un certo fatto accade, ma non viene trasmesso, è come se non fosse mai accaduto), La Corte insiste sulla “storia orale”, che si è affermata a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, anche se già nel 1948 lo storico Allan Nevins  fondò il Columbia Oral History Research Office, ora noto come Columbia Center for Oral History, con lo scopo di registrare, trascrivere e archiviare interviste di storia orale. Proprio dalle interviste, dalla viva voce di chi la storia l’ha fatta e l’ha vissuta sulla propria pelle, scaturisce il romanzo di La Corte, come si legge nella Presentazione: spesso occorrono tecniche letterarie particolari per ricostruire la verità attraverso il romanzo. Ho scelto quella classica del cronista, che oltre al supporto del documento scritto basa la sua credibilità sui racconti orali. 

Ma come intervistare chi magari è riluttante o diffidente a raccontare, come creare una sintonia tra storico e intervistato? La Corte si è brevemente soffermato sulle sue tecniche, tutte fondate sull’onestà intellettuale e sull’empatia: le testimonianze rese non sono quelle formalmente impeccabili del dibattimento giudiziario, ma sono momenti di vita che hanno marchiato in modo indelebile l’anima di chi le racconta, devono essere ascoltate e riprodotte con estrema cura e con quella pietas che sempre affiora nelle pagine del suo libro.

Due giornate, quindi, molto ricche di informazioni e di stimoli che, credo, il pubblico abbia positivamente recepito: perché di storia abbiamo sempre bisogno; perché di storia proprio non possiamo fare a meno, nonostante quello che sembri credere qualche nostro poco avveduto decisore politico.

Ad ottobre/novembre 2019 ci sarà la Sessione Autunnale del Convegno, con relazioni in cui il senso della storia verrà esaminato dal punto di vista delle letterature moderne, dell’arte e della scienza.